Don Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 Maggio 1923 in una famiglia fiorentina agiata e colta. Lorenzo, secondogenito di tre fratelli, cresce così in un ambiente culturalmente fecondo, improntato alla libertà intellettuale, ad un radicato laicismo e ad una forte apertura internazionale. Il padre, Albano Milani, era un chimico appassionato di letteratura, figlio da sua volta di Luigi Adriano Milani, archeologo e numismatico. La madre, Alice Weiss, proveniva invece da una famiglia ebrea, anch'essa con un notevole bagaglio culturale: allieva di James Joyce, era cugina di Edoardo Weiss che la introdusse agli studi di Sigmund Freud.. Questi legami avevano consentito alla famiglia di ereditare, oltre al prestigio, anche un ricco patrimonio di libri, opere d'arte e reperti archeologici. I genitori si dichiaravano entrambi agnostici e anticlericali, e si erano sposati con rito civile.
La crisi economica spinge la famiglia Milani a spostarsi a Milano, dove Lorenzo studia, presso il Liceo Berchet, fino alla maturità classica. L'anno successivo, contro il parere dei genitori, Lorenzo decide di non iscriversi all’Università, ma di dedicarsi piuttosto alla pittura, iscrivendosi all’Accademia delle Belle Arti di Brera. Una scelta, questa, sicuramente influenzata dall'incontro con il pittore fiorentino Hans Joachim Staude, conosciuto nell’estate del 1941.
Per la famiglia Milani l'ambiente milanese non si era però rivelato accogliente: le loro scelte di vita e posizioni religiose li rendevano malvisti e pertanto isolati all'interno della società del tempo. Per questo i genitori di Lorenzo decisero di celebrare nuovamente il proprio matrimonio anche con rito religioso, e di battezzare i propri figli a Gigliola, nei pressi di Montespertoli. Un “battesimo fascista”, come lo chiamò sempre Lorenzo. Proprio a Gigliola, durante le vacanze estive del 1942, Lorenzo decise di affrescare una cappellina sconsacrata, dove rinvenne un messale e che lesse avidamente, restandone molto colpito. Rientrato a Milano, alla fine dell'estate, Lorenzo iniziò ad interessarsi alla liturgia.
L'interesse di Lorenzo per la religione ed i suoi significati più profondi si rafforza con il passare del tempo e lo porta ad attraversare un grande travaglio interiore che lo conduce alla decisione, al suo rientro a Firenze, di entrare in seminario. Una decisione scioccante per i suoi genitori, che comunque non la ostacolarono. Lorenzo entra quindi nel seminario di Cestello, nel quartiere popolare di San Frediano a Firenze mentre tutt'intorno infuria la guerra. La vita seminariale si rivela dura e il giovane sperimenta qui privazioni alle quali non era abituato. Ciononostante Lorenzo non si scoraggia e coltiva, insieme allo studio, la sua autonomia intellettuale nei confronti delle strutture ecclesiastiche, che talvolta lo portano anche a discutere con i suoi insegnanti.
Lorenzo viene ordinato sacerdote nel luglio 1947 ed è subito assegnato alla parrocchia di Calenzano in veste di coadiutore del parroco, Don Daniele Pugi. La parrocchia di Calenzano – un centro agricolo che si avviava a diventare sobborgo industriale - era composta da 1200 persone appartenenti, quasi esclusivamente, a famiglie operaie e contadine e Lorenzo vi fonda da subito una scuola popolare a cui tutti possono accedere. La sua idea è quella di fornire ai parrocchiani quegli strumenti culturali e linguistici che avrebbero consentito loro di comprendere davvero la parola di Dio. Il suo libro “Esperienze pastorali”, pur se terminato dopo aver lasciato Calenzano, racconta questo periodo e gli avvenimenti che lo caratterizzarono.
Per il suo atteggiamento aperto nei confronti dei dogmi, in netto contrasto con una Chiesa ufficiale che mostrava posizioni estremamente intransigenti, alla morte del priore di Calenzano, fu deciso dalle gerarchie ecclesiastiche di allontanare Lorenzo da Calenzano per mandarlo in un luogo sperduto fra i monti del Mugello: la parrocchia di Sant'Andrea a Barbiana, nel comune di Vicchio. A Barbiana vi era solo una chiesetta e poche case di contadini, sparse sulla montagna. Non vi arrivava la corrente elettrica né una strada che arrivasse fino alla chiesa. Lorenzo arriva a Barbiana il 6 Dicembre del 1954 e qui trova un ambiente di estrema povertà e di emarginazione. Sulle aspre pendici del Monte Giovi vivevano allora un centinaio di contadini, gente povera e ignorante, che viveva del poco che strappava a un duro lavoro. Non rassegnato, né minato nella volontà dalla punizione arrivata dalle gerarchie ecclesiastiche, Don Milani decide di mettersi al servizio degli umili per sostenerli nel costruire attraverso lo studio una coscienza orgogliosa della propria dignità e dei propri diritti. «Non c'è motivo di considerarmi tarpato, se sono qui, la grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt'altre cose. E neanche le possibilità di far del bene si misurano dal numero dei parrocchiani.»
Don Lorenzo apre anche a Barbiana una scuola popolare, aperta 365 giorni all'anno, forte della convinzione che solo l'istruzione potesse davvero emancipare e rendere liberi quei giovani contadini. I primi allievi della scuola sono sei ragazzi per i quali Don Milani organizza una scuola da dodici ore al giorno, per 365 giorni all'anno, riuscendo ad entusiasmare quei piccoli montanari. “[A Barbiana] non c'era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava pensiero perché il lavoro è peggio. Lucio, che aveva 36 mucche nella stalla disse: «la scuola sarà sempre meglio della merda!». Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son pronti a sottoscriverla. Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci avete interrogati.» Don Milani insegnava ai suoi studenti, oltre alle materie classiche anche le lingue, la politica e la sua amata pittura, ed ancora la consultazione degli orari del treno o la lettura delle mappe. A Barbiana talvolta arrivavano visitatori, persone più o meno note che Lorenzo faceva sedere in classe coi ragazzi perché imparassero a ascoltare. Fu a Barbiana inoltre che Don Milani decise di pubblicare “Esperienze Pastorali”, il libro maturato nel periodo di San Donato.
Nel 1957 viene pubblicato, con l'imprimatur del cardinale Elia Dalla Costa e con una prefazione dell'Arcivescovo di Camerino Mons. Giuseppe D'Avack, il libro di Don Milani “Esperienze Pastorali” che trattava l'esperienza di Don Milani nel periodo trascorso a San Donato. Lo stesso anno il Sant'Uffizio ne ordina il ritiro dal commercio perché ritenuto inopportuno. L'Osservatore Romano, deplorando la pubblicazione del libro, spiegava in un articolo come l'imprimatur inizialmente concesso allo scritto fosse il frutto di una serie di equivoci rispetto ai quali la “superiore Autorità Diocesana” era completamente estranea.
Per dodici anni Don Lorenzo dedicherà la sua vita alla scuola e ai suoi ragazzi. Nel 1960 è colpito dai primi sintomi del male, un linfogranuloma, che poi lo porterà alla morte, nel giugno 1967, all'età di soli 44 anni.
Don Lorenzo Milani inizia, insieme ai suoi ragazzi, la scrittura collettiva del testo “Lettera a una professoressa” che sarà pubblicato un mese prima della sua morte. Motivo ispiratore del testo fu la bocciatura di due ragazzi di Barbiana all'esame di ammissione all'Istituto Magistrale. Il libro inizia proprio come una lettera: «Cara signora, lei non ricorderà nemmeno il mio nome, ne ha bocciati tanti...» e prosegue poi accusando la scuola di non svolgere il compito affidatole dalla Costituzione nell'Articolo 3. Alla base di “Lettera a una professoressa” c'è una rigorosa ricerca statistica svolta dagli stessi ragazzi di Barbiana sulla realtà della scuola dell'obbligo e sulla selezione che in essa si fa a favore delle classi più abbienti: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde. La vostra scuola dell'obbligo ne perde per strada 462.000 l'anno. A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli.». I dati raccolti mostrano con chiarezza che la bocciatura colpisce i più poveri fra i ragazzi: un'evidenza che nel libro viene così criticata: «Voi dite di aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi». I metodi, i programmi, l'organizzazione della scuola di Barbiana sono molto diversi, spesso in aperto contrasto, con quelli della scuola di stato del tempo. A distanza di tanti anni è possibile osservare come essi abbiano prefigurato alcune direttrici della didattica e della pedagogia odierne.
Viene pubblicato “L’obbedienza non è più una virtù - Documenti del processo di don Milani” edito dalla Libreria Editrice Fiorentina. Il testo contiene la risposta all’ordine del giorno dei cappellani militari della Toscana in congedo in cui si accusavano di viltà gli obiettori di coscienza. “L’obbedienza non è più una virtù“include oltre alla risposta ai cappellani, anche la “Lettera ai giudici”, un’autodifesa che Don Milani scrisse dopo la denuncia per apologia di reato presentata da ex combattenti. Il testo contiene parole tutt'oggi attuali: “Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri miei stranieri”.
Esce, nel maggio del 1967, “Lettera a una professoressa”, in cui gli allievi (insieme a Don Milani) denunciano il sistema scolastico italiano e il metodo didattico che, spiegano, favorisce l'istruzione delle classi più ricche (i cosiddetti "Pierini"), senza scalfire la piaga dell'analfabetismo in gran parte del paese. “Lettera a una professoressa fu scritta negli anni della malattia di don Milani. Pubblicata dopo la sua morte è diventata uno dei moniti del movimento studentesco del '68. Altre esperienze di scuole popolari sono nate nel corso degli anni basandosi sull'esperienza di Don Lorenzo e raccontata in questo testo fondamentale.
Don Milani muore il 26 di giugno del 1967, a soli 44 anni. Negli ultimi mesi della malattia volle stare vicino ai suoi ragazzi perché, come sosteneva, "imparassero che cosa è la morte". Tuttavia, nei suoi ultimi giorni di vita fu riportato a Firenze perché morisse in casa di sua madre. Fu poi tumulato nel piccolo cimitero di Barbiana, sepolto con indosso l'abito talare e, su sua espressa richiesta, gli scarponi da montagna ai piedi.